di Massimo Costa -

La riforma degli enti intermedi in corso in Sicilia è certamente una di quelle che resterà nella storia, alla pari dell’introduzione dell’elezione diretta del Sindaco, che proprio in Sicilia fece da battistrada all’Italia, nell’ormai lontano 1991.

Bisogna però stare ancora molto attenti a quello che succederà all’Assemblea, perché il gattopardismo è sempre in agguato e perché è fondato il rischio che tra la progettazione e l’attuazione questa svolta perda gran parte della propria carica propulsiva.

Intanto capiamo da dove vengono, ma poi vediamo come si potrebbe declinare questo istituto per venire incontro alle esigenze di oggi.

I liberi consorzi sono l’eredità storica delle “associazioni distrettuali” previste dallo Statuto del Regno di Sicilia del 1848, a sua volta eredi dei Distretti del Regno di Sicilia previsti dalla Costituzione del 1812.

Nella figura è rappresentata la mappa originaria.

Certo oggi una mappa di questo tipo sarebbe anacronistica per più di un motivo, ma allora rappresentava un’aggregazione dei Comuni siciliani che teneva conto dei distretti naturali e dei centri di gravitazione.

Sarebbe anacronistico, ad esempio, non tenere conto che la geopolitica siciliana ha segnato nel frattempo alcuni sorpassi (Ragusa su Modica ed Enna su Piazza Armerina), oppure non tenere conto del declino demografico delle zone interne che renderebbe eccessivi i due distretti al posto dell’attuale Provincia di Enna oppure cercare di tenere uniti i circondari di Barcellona e di Taormina per mezzo della debole e decaduta Castroreale. Ma non è questo il punto. Nessuno vuole fossilizzare in “cantoni” la suddivisione amministrativa della Sicilia che pertanto mantiene un suo interesse soprattutto storico.

Il punto è che c’è il rischio di travisare quella che dovrebbe essere un’istituzione vicina ai cittadini e trasformarla in nient’altro che il nuovo nome delle vecchie province, magari anche proprio con gli stessi confini. E già i numeri che sono girati come limite minimo per costituire un nuovo consorzio sembrano essere la conferma di questo pericolo. Il numero di abitanti è certo importante ma da solo, senza contare il territorio, non significa molto: 100.000 abitanti sono troppo pochi per fare un Consorzio quando questi abitanti si trovano in un’Area metropolitana (che NON E’ BENE dividere), mentre potrebbero essere troppi per le aree montane e insulari. Le Madonie, ad esempio, hanno diritto per natura a costituire il loro Consorzio, qualunque sia il numero degli abitanti, altrimenti resteranno come sempre emarginate. Oppure le Piccole Isole che forse dovrebbero fare un consorzio fra di loro sui generis perché i problemi di chi vive in una piccola isola non potranno mai essere capiti da chi vive nel capoluogo sulla Terraferma.

Immagino già la polemica da Bar dello Sport: “Ma come? Togliamo 9 province regionali per fare 23 o 24 Liberi consorzi?”. Ecco, se la sentite dire, questa è una grande, grandissima sciocchezza. Il Consorzio, infatti, non è una micro-provincia (quelle spariscono e basta); esso è un macro-Comune, anzi è forse l’unica soluzione per salvare i 400 comuni siciliani dal dissesto sicuro. In tempi di vacche magre i Comuni si accorpano, pur mantenendo la loro autonomia, per tutte le funzioni a rete sul territorio e, così facendo, ottengono notevolissimi risparmi. È questo uno dei sensi forti della riforma dei Consorzi.

I Consorzi devono fare superare per davvero la logica dell’ente intermedio, non farla sopravvivere sotto mentite spoglie.

La Provincia, con le sue elezioni, la sua politica, il suo governo e sottogoverno, deve semplicemente sparire. Forse i tre consorzi metropolitani possono e devono avere una struttura leggermente diversa, ma di questo ne parleremo dopo.

Le sue funzioni possono tranquillamente essere distribuite tra la Regione e i Comuni (con i dipendenti). Però anche sui dipendenti è da valutare se sono possibili risparmi sul lungo termine. Bisogna ridefinire gli organici e tenere a esaurimento i sovrannumero. Questo vale per ogni aspetto della riforma, ovviamente.

Bene fa la riforma ad attribuire alcune funzioni importanti ai Consorzi, quali l’acqua, i rifiuti e l’edilizia popolare, cui aggiungerei senza dubbio i trasporti urbani, la viabilità comunale ed intercomunale, ma anche taluni uffici amministrativi quali senz’altro quelli sull’amministrazione del personale.

Nei Consorzi metropolitani l’integrazione può farsi anche piú stretta, lasciando ai Comuni “solo” (si fa per dire) i servizi alla persona, la cultura, gli uffici finanziari, la polizia amministrativa e poco altro. Nei Consorzi metropolitani il Comune principale va diviso in Municipalità cui delegare tutti i servizi diffusi e fare coincidere, per il resto l’amministrazione del Consorzio con quella del Comune principale. In questi Consorzi i Cittadini dovrebbero eleggere direttamente il sindaco metropolitano, che sarebbe così contemporaneamente sindaco del Comune principale, ma il Consiglio dovrebbe essere costituito pur sempre dai sindaci e dai presidenti delle municipalità del comune principale.

Negli altri consorzi il Presidente dovrebbe essere eletto, senza oneri comunque, tra i sindaci.

Chi deve far parte del Consiglio consortile? Sento parlare di giunte, di consiglieri… Troppo pletorico. Basta l’assemblea dei sindaci, con un voto ponderato al 50 % per il numero di abitanti e per il 50 % per la superficie comunale.

Come si devono finanziare i Consorzi? Con una percentuale del budget dei Comuni, altrimenti che Consorzi sono? Altrimenti che risparmio c’è? I Comuni delegano, ad esempio, un quarto delle loro entrate e del loro personale al Consorzio ma anche molto più di un quarto delle loro funzioni, con un grande sollievo per tutti.

A questo punto, con l’introduzione delle municipalità nelle tre grandi città, l’istituto del Consiglio Circoscrizionale, altro orpello inutile, può essere soppresso definitivamente. Solo lo salverei in quelle piccole comunità isolane prive di Comune, ma anche in quei comuni che, diventando troppo piccoli, inevitabilmente dovrebbero perdere la loro autonomia.

A proposito di questo, se è vero che è impopolare e forse assurda l’abolizione dei piccoli comuni, e se è vero che la riforma dei Consorzi rende in gran parte inutile un provvedimento del genere, è anche vero che deve esistere una soglia, al di sotto della quale, diventa altrettanto assurdo mantenere l’autonomia di un Comune. Sarà 1000? Sarà 500? Sarà 100? Non lo so, ma certamente se per tre anni di fila si scende sotto un minimo va preso atto del fatto che quella comunità si è praticamente estinta e non ha senso spendere soldi pubblici per comunità piccole come condomini.

Una riforma di queste abolisce una fonte di sprechi, riduce i costi della politica e, paradossalmente, può costituire amministrazioni piú vicine al cittadino.

Ma c’è un altro aspetto della riforma che non va preso sotto gamba e di cui non ho sentito sinora parlare.

Non basta abolire le amministrazioni provinciali per togliere le province. Si devono adeguare anche le attuali circoscrizioni provinciali alla mappa dei distretti nella stessa amministrazione regionale e, quando sarà stata del tutto delegata alla Regione, anche di quella statale (prefetture incluse).

E qui intravedo un pericolo. Ci può anche star bene che, con personale ex provinciale o ex comunale, la Regione istituisca un piccolo presidio (a costo zero) per ogni distretto consortile, con un dirigente coordinatore a capo (non ne mancano in Regione), in cui concentrare tutti gli uffici che devono essere diffusi sul territorio.

Ma se i Consorzi saranno tanti, poniamo 24, è mai possibile diffondere in maniera così capillare tutta l’amministrazione statale e regionale sul territorio? Credo di no, sarebbe uno spreco colossale. Ve li immaginate 24 uffici scolastici, 24 uffici della motorizzazione civile e così via? Sarebbe una iattura. Per questo la Regione dovrebbe pensare addirittura un processo inverso. Va bene una piccola presenza distribuita nel territorio, ma le attuali funzioni provinciali, anziché essere decentrate nei distretti/consorzi, dovrebbero essere ulteriormente accentrate in poche grandi macro-province regionali in cui articolare l’amministrazione della Regione.

Si potrebbe pensare a soltanto 4 grandi “province regionali” (come gli attuali distretti giudiziari), che, pur mantenendo questo nome, sarebbero però una cosa completamente diversa da quelle attuali. A capo di queste un “procuratore regionale” o “intendente”, cioè un dirigente di secondo livello (anche di questi non ne mancano in Regione), larva di “prefetto regionale”, che coordini e controlli ad un primo livello l’amministrazione regionale periferica. Per accompagnare questa riforma con analoga organizzazione nel territorio delle funzioni statali, l’Assemblea dovrebbe in parallelo emanare una legge-voto per l’organizzazione periferica delle funzioni statali nell’Isola che ricalchi i confini delle nuove circoscrizioni. E quindi solo quattro prefetti per intenderci (finché non saranno del tutto assorbiti nelle funzioni dai nostri “intendenti”), e così via.

Ho voluto buttare giú queste prime idee solo per dare un contributo ad un dibattito che non deve restare chiuso nel Palazzo. Il Palazzo ha le proprie esigenze politiche di autoconservazione e perpetuazione del potere, magari anche legittime, ma la società siciliana ha bisogno soprattutto di attuare lo Statuto per creare sviluppo e garantire servizi pubblici efficienti e a basso costo. Non buttiamo questa occasione e vigiliamo i nostri legislatori.